Lettera a Ofcom, Meta, X e altri contro la censura dei contenuti pro-Palestina

Il 2 agosto, il Guardian (edizione britannica) ha portato all’attenzione dei lettori una lettera di Open Rights Group a Ofcom, Meta, Alphabet, X e ByteDance, co-firmata anche da EDRi (European Digital Rights), Hermes Center e una ventina tra organizzazioni per i diritti umani e singoli individui.

La lettera in questione ha l’obiettivo di chiarire come la messa al bando nel Regno Unito del gruppo attivista Palestine Action possa influire anche sulla censura dei contenuti online “pro” Palestina. Che è un po’ quello che già sta succedendo.

Ma facciamo un passo indietro. Su quest’ultima tipologia di censura (quella online, dai motori di ricerca ai social media), si è già discusso ampiamente nel campo dei diritti digitali, ed è ormai fatto comprovato che, quando si tratta di contenuto “pro“ Palestina, i colossi tech della Silicon Valley applichino da anni rimozione o shadowban ingiustificati.

Putroppo non è una novità

A finire nel mirino, contenuti che presentano riferimenti anche vaghi alla Palestina — senza necessariamente costituire propaganda politica, tantomeno terroristica. Nel 2022, la censura contro questo tipo di contenuti era già ben nota, in particolare quella applicata ai social media.

Ne parlava infatti Dazed in questo articolo, dal titolo Is pro-Palestine content being censored on social media?, riprendendo la “lista nera” dell’allora Facebook (oggi Meta) pubblicata dall’Intercept nel 2021. Nella lista, si ricorda, anche associazioni umanitarie e account di persone semplicemente musulmane.

In ogni caso, la lettera che abbiamo co-firmato esprime il timore che la criminalizzazione di Palestine Action possa portare a un “chilling effect”, capace di limitare il dibattito pubblico, marginalizzare voci critiche, e finire per sopprimere contenuti leciti sulle piattaforme social.

Un ulteriore problema evidenziato riguarda la mancanza, nel Regno Unito, di un meccanismo indipendente di ricorso per contestare rimozioni o oscuramenti di contenuti prodotti dagli utenti: si richiede quindi la sua istituzione, proprio per tutelare la libertà di espressione. Si sottolinea anche come le piattaforme, su indicazione di Ofcom, potrebbero optare per una censura più ampia del necessario per evitare il rischio di inadempienza normativa.

La lettera, infine, include 10 domande rivolte a Ofcom (Office of Communications: è l’autorità indipendente per le comunicazioni nel Regno Unito), riguardanti le modalità di applicazione della censura online che conseguirà alla messa al bando di Palestine Action, secondo il Terrorism Act britannico (2000).

Il report di 7amleh su Meta

Non è finita qui. Secondo il report pubblicato da 7amleh il 2 settembre, Meta (Facebook, Instagram) ha avuto un ruolo centrale nella censura sistematica dei contenuti palestinesi durante il genocidio in corso a Gaza.

È emerso che:

  • Meta ha accettato il 94% delle richieste di rimozione di contenuto inviate dal governo israeliano;
  • questa censura, perlopiù automatica, ha colpito milioni di contenuti, limitando la documentazione di crimini contro l’umanità commessi dall’IDF e la diffusione della solidarietà online;
  • i contenuti che esprimevano solidarietà con i palestinesi sono stati spesso rimossi o silenziati, mentre i discorsi d’odio in ebraico sono rimasti online;
  • Meta ha così contribuito a rafforzare la versione dei fatti israeliana, ostacolando il diritto all’informazione dei palestinesi.

7amleh, organizzazione facente parte anche del network europeo EDRi, European Digital Rights, chiede: trasparenza totale sulle richieste di rimozione, ripristino dei contenuti censurati ingiustamente, rispetto dei diritti digitali e degli standard internazionali.

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